Cronache alcoliche
Claudio SimeoneOrmai era chiaro che dopo un anno e 4 mesi la situazione non era cambiata per niente. All’epoca Mario aveva 17 anni ed era ancora innamorato di Iolanda. E non c’era un cazzo da fare.
Si era messo il cuore in pace e aveva deciso che di lei non voleva più saperne. Ritornò a frequentare il Bar e a fumare e a bere, ogni sera restavamo chiusi dentro fino a tardi, ognuno scazzato per un proprio motivo, e si parlava. E finivamo sempre a per parlare di donne: chi le voleva rosse, chi le voleva brune, chi le voleva cotte, chi crude, ma tutti d’accordo su un unico punto: Esse Sono Tutte Puttane.
Si vedeva che Mario stava ancora una schifezza, anche se ci aveva provato a scordarsi tutto, e io mi chiedo in che modo poteva togliersela dalla testa e sentivo quasi il rumore dei suoi pensieri dentro la sua capoccia bionda: Tu con me hai chiuso, per sempre. Forever.
Sì, era stata una gran brutta storia, finita nel solito mare di merda dove vengono scaricate tutte le Grandi Storie d’Amore e in un certo senso era una cosa normale.
E chissà perché si mise in testa di rovinare tutto il faticoso lavoro di ricostruzione di un anno e 4 mesi per rivelare finalmente alla gente quello che già tutti sapevano e cioè che lui non ce la faceva più, voleva parlarle. Ancora.
Nessuno lo sconsigliò dal farlo e tantomeno io: si sarebbe bruciato di nuovo e la cosa forse gli avrebbe fatto aprire gli occhi sulla situazione.
Che cosa le avrebbe detto? Non si parlavano da quando avevano rotto. Lui puntò tutto sull’alcol: avrebbe improvvisato, quello che gli mancava era un’occasione. Trovarsi come per caso al posto giusto quando il momento sarebbe stato propizio.
Si stava incasinando l’esistenza.
Nessuno volle aiutarlo, doveva farcela da solo e nessuno ebbe il coraggio di scommettere su di lui neanche una mezza Peroni.
Tutto sembrò voler accadere un sabato sera in discoteca. Mario sapeva che Iolanda sarebbe stata lì e si preparò per riuscire al meglio nell’impresa: si ubriacò ma la sua non era paura, era abitudine. Non riuscivamo infatti a divertirci senza aver bevuto prima un cofano di alcol. E quella sera, proprio per dargli un appoggio morale, mi ubriacai con lui. Nel Bar non parlò nessuno, io e lui separati dal resto del gruppo, a bancone. Non toccammo l’Argomento, chiacchierammo così, come fosse una serata qualsiasi e non quella in cui il mio amico preferito stava per giocarsi l’anima e la salute con dei dadi truccati.
E a testa ci scolammo nell’ordine: tre gin tonic, due spumantini, un black russian e due cocktail di sua invenzione: una bomba alcolica fatta di cointreau, sciroppo di fragola, gin, vodka liscia, coca buton e acqua tonica. Faceva leggermente schifo ma gli stavamo cercando un nome.
Restammo quasi un’ora a sorseggiare, poi via, in birreria per una bionda doppio malto zero4 di rinforzo. Infine la discoteca.
All’ingresso non c’era nessuno, tranne un buttafuori a forma di armadio che si grattava le palle al freddo & al gelo. Ci fece entrare subito, senza fare storie come al solito, forse intuì che dentro si sarebbe compiuto eccetera eccetera.
Una volta dentro lo lasciai al suo destino e me ne andai al bar. Sembrava tranquillo. Io ero leggermente fuori, chissà lui, forse lui per la tensione accusava di meno tutte quelle schifezze. Boh?
Cercai di tranquillizzarmi anch’io, mi feci un giro.
E poi ero curioso di sapere come andava a finire. Lungo il corridoio mi aveva detto:
– Mi sento come quel coglione della pubblicità del martini, quello stronzone che si scopa la troia bionda con quel culo meraviglioso, c’hai presente?
Annuii e non potei fare a meno di pensare che tutte le volte che avevo offerto un martini a qualche ragazza, non avevo mai concluso niente. Notai due in minigonna ascellare che si strusciavano ballando molto lesbiche e gliele indicai. Lui disse:
– Sono due troie, non portano le mutande.
– Forse le avranno lasciate in bagno.
– Non credo, per questa gente la biancheria intima è un optional.
Ritornai a me e lo immaginai girare nella mischia, con un cuba libre in mano, fermandosi ogni tanto a sorseggiarlo badando a schivare i coglioni ubriaconi che già non ce la facevano più a reggersi in piedi.
La pista era affollatissima, stracolma di creature scalpitanti e sudatissime, recintata da statue ubriache, appoggiate alle pareti con le teste riverse e le bocche semiaperte, gli occhi sbarrati persi in una visione immobile e tuttavia inafferrabile e ai lati di questa massa saltellante di carne, profumi, deodoranti siete come sabbie mobili tirate giù e di sudore, c’erano stravaccate su minuscoli e scomodissimi divanetti, le coppiette intente alle loro felici occupazioni.
A fianco ad una di loro Mario vide finalmente Iolanda.
Era sola, beveva qualcosa e fumava una sigaretta.
Era la prima volta che Mario la vedeva fumare.
Tutt’intorno solo ombre sopraffatte dalle luci colorate e dagli strobo, figure indistinte nella penombra. Evanescenti stronzofantasmi di fine millennio.
Mario si sedette accanto a lei come se nulla fosse importante. Restò immobile, aspettando che accadesse qualcosa, reclinò la testa all’indietro e fece l’errore di chiudere gli occhi.
In un attimo tutto l’alcol bevuto gli annebbiò il cervello, ricordi e sensazioni seguivano il pulsare dei bassi prendendo forme assurde, irreali, incubi partoriti da una febbre fortissima. Sudava, aveva caldo, troppo caldo e non riusciva a tirarsi fuori dal vortice che l’alcol aveva generato, parole che non erano sue gli rimbombavano in testa: Non berrò mai più, non berrò più, mai più.
Mario aveva perso il controllo, era evidente. Si abbandonò impotente a quella tempesta alcolica e la lasciò scorrere dentro di sé, la fece scendere fino allo stomaco, mentre la gola cominciava a contrarsi per le prime avvisaglie di un terremoto imminente.
Scappare ora non sarebbe servito a niente, intuì che non ci sarebbe mai riuscito a trascinarsi al cesso schifoso di quella fottuta discoteca, anzi, l’immagine che gli si sgranava in testa, il pavimento inondato di piscio e il lavandino otturato dal vomito, i residui di cibo digerito a metà che galleggiavano in una brodaglia marrone e il ricordo dell’odore acido di quello schifo che aveva sempre trovato in tutti i cessi di tutte le stronze discoteche in cui era stato, non poté più trattenerlo dal trattenersi: Mario si girò di scatto e, sempre ad occhi chiusi, vomitò su Iolanda tutto l’amore che aveva sempre provato per lei. Nessuno gli resse la fronte e cadde pesante sul seno di lei già baciato dai suoi succhi gastrici.
Era caduto di nuovo, dopo un anno e 4 mesi, su quello stesso seno dove tante volte in un tempo che ormai apparteneva al suo sbiadito album di figurine, si era lasciato cullare dopo la battaglia, a fumare una sigaretta.
Iolanda non restò insensibile a quella sincera e disperata dichiarazione: chiuse gli occhi e ricambiò allo stesso modo, tutti e due si unirono nella stessa dolcezza, e io capii finalmente perché queste cose non si posson risolvere così semplicemente, andando a sputtanarsi in TV a Stranamore.