A streetcar named desire
Antonio IzzoLa neve che cade è evidentemente artificiale. Non quella fredda, eiaculata dai cannoni (mettete dei fiori nei vostri cannoni, o dell’erba cipollina, o dei cristalli di ghiaccio, sali minerali, diamanti, parti umane di seconda mano, tappetini per auto) delle piste da sci, ma quella, ancora peggiore, dall’aspetto schiumoso, e ributtante dei set pubblicitari. La mia finestra si squadra davanti ad un panorama profondo, una distesa di neve inverosimile, del colore grigio scuro del crepuscolo di una giornata nuvolosa. Ma deve essere finta, questa neve che scende a disegnare i coni di luce dei lampioni, come in un programma di grafica 3D.
E, a pensarci bene, sembra che tutto quello che mi circonda non sia che il frutto della sapiente combinazione di bit, ordinatamente disposti da un grafico sul suo monitor ad alta risoluzione (e bassa emissione di radiazione, of course, stai pure tranquillo figliolo, che questo monitor non ti irraggerà di fotoni ad alta energia, manco per niente, si limiterà a succhiarti un po’ di anima per volta, ad un tasso dipendente dalla tua predisposizione genetica all’alienazione perpetrata attraverso la smemorizzazione, fratello; e dimmi se non ti conviene questa piccola transazione, compagno, amico: tu mi dai il tuo disordinato mondo di carne e sterco, ed io te ne do uno di poligoni texturizzati, a 32 bit, con RAMDAC a 330 MHz, e un pixel rate da sballo). I passanti sono, è impossibile non notarlo, dei figuranti, delle comparse, paga sindacale e niente battute e attenti a quello che dice l’assistente del regista!, se no va tutto in vacca sono qui solo per fare numero, e dare al pubblico un’idea dei grandi mezzi impiegati per la produzione del film.
Ma ormai non ci casca più nessuno. La sceneggiatura, in ogni caso, è scadente, roba da telenovela brasiliana, inizio anni ottanta, che, comunque li stiamo già rivalutando, come dire che se il gioco è quello di pescare merda, è meglio quella fresca, c’è più feeling. La sensazione generale è che quello che chiamiamo mondo reale stia lentamente passando da uno stato di moto ad uno di quiete, come un orologio che esaurisce la carica, e alla fine si ferma e resta imbecille a segnare il suo nontempo.
Da qualche parte stanno suonando “Per Elisa”. E’ troppo. Accendo la TV.
Eccolo, arriva, rosa, circondato da neve non più falsa di quella che agonizza sotto le ruote delle auto nella strada qui fuori. Il tram dei mentecatti, quello pieno di gente che canta. E quanta felicità in quei volti di gente vera, in quei calchi di lattice ripresi sulle facce di veri, autentici, emozionali esseri umani e nessun animale è stato torturato per la realizzazione di questo spot, ed è un bene, ma gli esseri umani non sono animali? ed allora come la mettiamo, fratelli carissimi?
Come sono veri, mentre starnazzano la loro canzone, fatta di una sola, idiota, sillaba:
bababababababababababababababaaaaaaaaaaaaaaa.
A Natale siamo tutti.