Cronaca di un giorno di viaggio
Saverio Lucus Romeo“Mia figlia non mi ha invitato al suo matrimonio. Hai capito? Non ha invitato me. Suo padre!!”
Il treno squarciava gli atomi dell’aria fresca d’inizio inverno attraversando paesaggi noti e ben impressi nella mia memoria di neurolabile studente fuorisede.
La corrente elettrica fluiva inesorabile nei cavi dell’alimentazione elettrica fino al locomotore che trascinava ad alta velocità quell’ammasso di ferraglia che le FS ci fanno credere treno.
Con la stessa furia la sua voce ripeteva quelle parole.
Il suo sguardo era calmo, rilassato, normale se non fosse per quel suo sorriso folle e irresponsabile, se non fosse per quel suo ghigno neurale distorto.
“Mia figlia non mi ha invitato al suo matrimonio. Hai capito? Non ha invitato me. Suo padre!!”
Dicendolo si era appena seduto e poi, di scatto, si era rialzato sorridendo al mio stupore e al mio imbarazzo. Il treno, ostinato e presuntuoso, sfidava la terra, il cielo e con velocità dirompente lasciava le montagne imperiose degli Alburni per arrivare al mare, dove sistematicamente ti prende quella nostalgia inguaribile dei tuoi boschi freddi e impervi.
I suoi occhi mi fissavano come se fosse il Jack Nicholson di “Shining”, il suo diabolico sguardo mi trasmetteva timore: era la paura della follia.
“Mia figlia non mi ha invitato al suo matrimonio. Hai capito? Hai capito?” ripeteva urlando e aggredendo il mio udito.
Ero bloccato, immobile, incollato sul sedile. La paura!!! Ero come un adesivo su quel liscio e artificiale e inospitale tessuto blue.
Il mio sguardo impaurito si perdeva nei suoi occhi folli in cerca di un bagliore di ragione e di ripensamento. Le gambe tremavano. Cercavo di bloccarle, ma il loro movimento diventava sempre più incontrollato.
“Il destino è stato ingiusto. E’ stato ingiusto.”
Disse sedendosi vicino a me e poggiando la sua testa sulle mie spalle come un bimbo che cerca protezione nell’amore materno.
I suoi occhi erano dolci e indifesi, il suo sguardo da folle era diventato debole e fanciullesco, le lacrime gli solcavano il viso cadendo sul pantalone. Provai ad accarezzarlo e ad asciugargli le lacrime.
Mi abbracciò e mi chiese di cantargli una canzone.
“Non sono un cantante, non so cantare.” Pensai. Ma qualcosa trovai e cominciai a distruggere “Come ogni volta” dei La Crus.
Si abbracciava ancora di più chiedendomi di continuare a cantare.
Poi all’improvviso si alzò, liberandosi violentemente della mia persona.
Il suo viso tornò folle e diabolico.
“Mia figlia non mi ha invitato al suo matrimonio. Hai capito? Non ha invitato me. Suo padre!!”
Così dicendo andò via correndo tra l’incredulità dei passeggeri.
Un braccio mi scosse. Una voce: “Siamo a Napoli.”
Aprii gli occhi. L’orrore del Centro Direzionale mi fece tornare alla realtà
“Mi devo fremare, basta con questa follia di “Gommalacca”, con i libri di Ballard e di Kafka… Basta con il vino.”
Scesi dal treno e incontrai un amico dell’università.
“Cosa stai studiando?” mi chiese.
“Dimmi almeno ciao. Chiedimi come stai” pensai e guardando al cielo sperai di tornare nel mio sogno.