Novembre 1898
Leandro Pisanoovvero: Memorie iperboliche di un viaggiatore
“Pur nondimeno ridevano,
allegri a modo nostro,
da isterici”
Edgar Allan Poe
Ho l’impressione che questo viaggio sia durato troppo, o quantomeno ritengo che il tragitto compiuto, ignoto in buona parte pure al cocchiere che a tratti mi osserva indispettito, abbia scavato dentro di me un senso di inanità che si fa man mano sempre più deflagrante. Sfoglio distrattamente un libello alla luce fioca della lampada, mentre all’esterno il nitrito dei cavalli sembra rammentarmi il senso d’inquietudine che d’impeto sta assalendo l’intera vettura. Se non fosse notte inoltrata e l’oscurità completa non mi impedisse di delineare il paesaggio dell’ambiente esterno, abbozzerei volentieri una sua ricostruzione almeno nei tratti più evidenti.
Potremmo essere da qualche parte sotto i monti; il freddo pungente e l’aria ovattata mi impediscono di godere appieno della nenia estone che mi sembra di avvertire, che diventa insistente e ripetitiva nonostante lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli e il cigolio della carrozza siano i rumori dominanti. Non so da quanto tempo siamo in cammino, mi chiedo quali fossero le condizioni atmosferiche al momento della partenza (ci deve essere pur stata!) e se il forte vento che ci fa ondeggiare abbia un ruolo fondamentale nelle mie allucinazioni uditive. La percezione che ho dei momenti che sto vivendo e delle situazioni che lentamente affiorano ai miei sensi e’ leggermente dilatata, come se la mia mente registrasse tutti questi eventi in sensibile ritardo, come se l’elaborazione di pensieri compiuti fosse opera ardua per un cervello abbandonatosi agli impulsi più bislacchi.
Così all’improvviso a voce alta intimo al cocchiere di dirigersi verso un punto luminoso che mi sembra di scorgere in lontananza e lo rimbrotto a dovere quando mi obietta di non vedere nulla di luminescente dinanzi a se’. Anzi gli prometto una dura razione di scudisciate se non eseguirà l’ordine. Finalmente seppur tra i mugugni e le perplessità del vetturino riesco ad avvicinarmi al punto prefissatomi, mentre mi beo del pensiero che tra poco potrò scendere e liberarmi per qualche tempo dell’insulso odore dell’olio che brucia nella lampada. Ordino al conducente urlando continue virate e curve improvvise, alla ricerca di un’immaginaria scorciatoia che mi permetta di raggiungere ciò che ora incomincio ad intravedere dai vetri appannati come una specie di capanno.
Quando faccio bruscamente fermare la carrozza e scendo, mi ritrovo di fronte ad una costruzione ottagonale a mo’ di tenda, sormontata da una cupola arabeggiante rastremata verso l’alto con all’estremità un’enorme sfera in marmo pavonazzetto. Il cielo è assolutamente terso e stellato; sono circondato in tutte le direzioni dalla steppa interminabile. Provo ad avvicinarmi alla costruzione illuminata agli spigoli da torce abnormi ed inizio a girare attorno al perimetro quando, svoltato un angolo all’improvviso mi imbatto in un enorme portone dagli stipiti di alabastro ai lati del quale dominano due energumeni dai tratti somatici tipicamente mongoli, con il volto giallastro e gli occhi allungati fino a diventare due fessure, con la barbetta incolta ed un enorme copricapo triangolare che copre pure le orecchie aguzze. I due mi osservano indifferenti ed io tranquillamente varco la soglia che immette in un vestibolo ornato tutt’intorno di statue raffiguranti ritratti a mezzo busto di uomini severi, dall’aria pensosa ed autorevole: filosofi o scienziati, suppongo. Le maestose teste di marmo di commodiana maniera mi spiano torve nella penombra fosca e mentre osservo, avverto indistinto un insistito vociare proveniente da una sala interna, oltre il corridoio.
Mi incammino nella direzione del brusio sbucando d’improvviso in una stanza quadrangolare, al centro della quale troneggia un tavolo rotondo, ai cui lati saltellano servi vestiti da cacciatori che portano ricurvi nella danza giganteschi pate’ a forma di selvaggina dai quali s’alzano in volo stormi di uccelli, cinghiali dai cui ventri scivolano fiotti di salsicce e oinochoi traboccanti di vini chioti speziati, in un effetto scenico straordinario; L’argenteria è finemente cesellata e le decorazioni a sbalzo sembrano essere state dettate dai punzoni e dai bulini dei toreuti dei tesori pompeiani; Gli arazzi rosseggianti sui muri ricordano per temi e decorazioni certi ritratti regali di Velazquez; Le vesti color avorio tunicheggianti indossate da una decina di fanciulle vocianti sedute attorno al tavolo svelano ai miei occhi un raffinato micro tiaso nel quale s’elevano gioiosi canti e folli gliconei di Anacreonte. Si discute. Si dialoga.
Nel disinteresse completo verso di me, solo una fanciulla dalla pelle lattea mi si avvicina e mi sussurra piano: “Tu devi essere Ione, né colui che è lontano dal modo di agire e di vivere degli altri, né colui che costruisce la sua vita per l’amore e per l’ira; ma solo colui che erra sui resti dell’anima malata contaminata dal corpo e dalle città, inferma senza colpe. Né aneliti, non supplici; Mai più echi.”
Già quando avverto i primi suoni della voce algida della kore, l’inquietudine mi pervade ed un senso di male interiore, di impotenza, di inutilità’ inizia a possedermi, dilatandosi in un climax inevitabile fino a raggiungere un Punto Fisso: quasi uno spillo potesse mai attraversasse da parte a parte il mio cervello, incunabolo di ogni pura metafisica del dolore abbacinante. Credo che d’ora in poi qualsiasi tipo di azione compiuta da me sarà’ vana e senza possibilità alcuna di risultanze effettuali. E’ doloroso. E’ tremendo. Ma è così. Purtroppo. E’ naturale quindi che ad un certo punto mi ritrovi per terra a contorcermi paonazzo nella sofferenza lancinante, come un invasato colpito da rantolanti convulsioni.
Mi sembra quasi che qualcuno mi stia strappando a forza dal corpo con un arnese uncinato incandescente l’anima indifesa. Voglio sfuggire a questo scempio, voglio un rifugio sicuro, che tutto si plachi e voglio sentire di nuovo solo il silenzio ringhiante della steppa. Via da qui, corro a perdifiato all’esterno ,superando pure la carrozza fino a quando perdo l’equilibrio su un dosso e cado pesantemente; Poi inizio a percuotere con tutta le mie disperate forze il capo per terra, violentemente, e avverto un sordo elastico crepitante tonfo: brandelli di grigiastra materia cerebrale si riversano copiosi sul violaceo suolo, trascinati da un cascata di liquido nerastro tracimante. Solo il candido colore della timida neve che dolce si sta posando oppone se’ a questo cromatismo di morte, ma la terra assorbe velocemente, inghiottendo tutto famelica, nelle viscere assetate; “Perché mi schiante? Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno?”
E’ curioso, ma proprio ora mi sembra di essere ancora al fianco di Aleksandr Nevskij, duca di Novgorod e corro veloce sui forti invincibili destrieri tartari con la sua armata per la steppa imbiancata e quando la fame ci acceca attacchiamo in massa buoi vivi e ci piace sentire il sapore della carne calda strappata a morsi, mentre gli urli strazianti degli animali che s’elevano al cielo ci eccitano. Quando però si fa mattino e la neve colora il piano immenso al di la’ del grandangolo prospettico visivo, quel nordico paesaggio sembra trovare la tranquillità di sempre per luoghi vissuti immateriali nel tempo, i cui pigri solchi sono stati eternamente tracciati dallo stesso gelido vento orientale. Nei fiumi ghiacciati che scendono complanari dagli altipiani all’orizzonte potranno mai interrompere questa ubriacante monotonia.
Fu in quel mese di Novembre che le alci scesero in massa dai monti e vi furono scene mostruose. Il compatto flusso delle bestie fu interpretato come un monito delle divinità montane. Vi fu tra la popolazione chi continuò a tramandare per intere generazioni racconti di bestie che, spossate dopo centinaia di miglia di cammino nella tundra, andavano a morire in riva ai laghi giù ai confini. Ancora oggi da quelle parti dove l’aria è rarefatta e il sole non tramonta mai, si narrano storie strambe di viaggiatori solitari.