Un figlio che non ho avuto
AnonimaDa bambini è tutto così semplice. Dici: – Scusa, non lo faccio più -, occhioni da cucciolo bastonato che non ti si può dire di no e con la pacca benevola sul sederino te ne torni pestifero a dare fuoco alle lucertole.
Ma a vent’anni non è semplice, specie se la persona a cui chiedere scusa non c’è ancora, e mai ci sarà, grazie a te. E poi come glielo dici: – Scusa se non ti faccio nascere, ma sei meno che troppo piccolo per capire – ? Io gli parlavo con un impaccio tale che riuscivo quasi a toccarlo, mentre cercavo fuori e dentro le parole che mi avrebbero giustificato: ancora qualche ora e di quell’errore non sarebbe rimasta traccia. Così cercavo di convincermi, almeno.
Ma sapevo bene, Dio come lo sapevo, che quel pensiero compulsivo sarebbe tornato presto e per molto a strisciarmi come un verme attorno alle pareti mollicce della coscienza, troppe volte chiamata in causa.
I bivi sono stati sempre una croce, e non so cosa non avrei dato per passare quella patata bollente a chiunque altro. Ma in quel casino mi ci ero messa io, al diavolo le sciabolate di autocolpevolizzazioni, o le imprecazioni più che colorite al simpaticissimo spermatozoo che quel giorno (quale?!?) ha deciso di segnare la storia. Ma gli uomini possono fermarla, la storia, e decidere della vita degli altri. Cosa sarebbe stato tra venti anni, se avrebbe mai vinto gare di hockey sul ghiaccio, non lo sapremo mai. Io che mi sono sempre schierata contro la legge a favore dell’aborto, sempre opposta, nei sondaggi per strada, nei convegni a scuola, a chi ritiene lecito sopprimere una vita prima ancora che nasca, mi ritrovavo dibattuta: avrei dovuto decidere per la sorte di chi, ahimè, già viveva dentro di me. E il solo pensiero di poter riuscire a venir meno ai miei principi morali per interesse personale mi disgustava. Ma la mia mano accarezzava il ventre, e il pensiero di disperazione. Una disperazione che mi gravava addosso con il peso di un dolore sproporzionato, che superava ogni ragionevolezza.
Ripenso vitrea, ibrida, apparentemente amputata d’ogni sensazione, in realtà trincerata in un pensiero chiuso e innominabile, alla leggerezza che ha preceduto il momento e poi ai secondi che sono seguiti, in cui si è infranto l’ordine provvisoriamente compatto di forme, corpi e idee. Tutto si fa stinto e improbabile, paurosamente labile ed esiziale, idiosincratico e scomposto.
E allora pensi, con una lucida, lucidissima follia, che neppure immaginavi possedessi, che il problema non è mai un problema se c’è la soluzione. Quindi scappi dall’ovvio peregrinare nei facili pensieri che seguirebbero, tanto lo sai che è un fottuto errore del cazzo e che te ne pentirai, e ne piangerai anche quando riderai: perché la felicità non è per gli impuri, ammoniscono dall’alto. E desidererai invocare la pioggia quando ci sarà il sole, perché crederai che quel cielo di un blu leggero, dolce e latteo sia uno spettacolo che non meriti.
Non c’è come difendersi da quell’universale ludibrio.
Macchiata, da quel giorno in poi. Macchiata di un delitto compiuto perché troppi occhi e troppe orecchie stanno appostati attorno come mosche. Forse su Marte l’avrei dato questo bambino. Invece, glaciale come un iceberg, salgo su al quinto piano e mi rinchiudono in camera con altre dieci, quindici storie diverse che mi risparmierei volentieri. Tutte più o meno avvilite, prostrate e in lotta ciascuna col fantasma della propria inesorabile colpa. La mia paura mi si era ficcata in gola e rimasta lì per tutto il tempo per un rigurgito d’orrore: il risucchio caldo della mia esistenza dal ricordo di quel momento ostico, dal probabile isolamento nel dolore mentale che ovunque mi avrebbe accompagnato. Non sono neanche la più giovane, faccio altro, non parlo con loro, voglio credermi diversa. Lo stesso schifo invece.
Sono stata l’ultima: le ho viste uscire tutte, una ad una, chi più forte, chi con le lacrime fino al collo, ma io non ho dato cenno di cedimento. Sono stata brava.
Parlavano d’aragosta, non lo dimenticherò più, mentre mi dicevano d’allargare le gambe. Li avrei linciati solo perché nominavano il pesce, giuro. Il rumore di quella specie di aspiratore con cui risucchiano via tutto, poi un’altra cosa che nemmeno un’amnesia acuta ed irreversibile riuscirebbe a farmi scordare. E tu che non vedi niente, hai come l’impressione che stiano frullando qualcosa, e allora sgrani gli occhi e pensi: – Cosa ho fatto? – . Ma pensi anche che tirerai un sospiro di sollievo perché il tuo incubo ha trovato finalmente la morte. E non è stato il solo.
Beh, ragazze, avete presente quando vi dicono: – Bisogna provare tutto nella vita? -: non prendeteli troppo alla lettera…