In occasione del discorso di Bruno Zevi sull’uccisione della prospettiva
Leandro Pisano(e sulla morte del Post-Modern)
Cari lettori di Senza Filtro, profondamente costernati annunciamo che da qualche tempo è ufficialmente deceduta la prospettiva. Ce ne ha dato il triste annunzio il professor Bruno Zevi, dopo trent’anni di insegnamento universitario e venti di apprendimento nella cultura libera, anti-universitaria e anti-istituzionale. Noi, per la verità, eravamo già sofferenti per la morte dell’arte, hegelianamente parlando.
La filosofia, intesa come scienza del pensiero consustanziale all’intuizione artistica, ci aveva guidati mentre, brancolanti nel buio, eravamo intenti al superamento delle categorie del “fare” artistico. Brancolavamo perché sapevamo che l’esperienza artistica ultimamente non ci aiutava ad “agire” sul reale, ad intaccarne i vari livelli. Vagavamo mentre, indispettiti ed attoniti, osservavamo le nostre espressioni avulse dal contesto produttivo generalizzato della storia, pagando il fio con l’evoluzionismo dell’arte, il darwinismo linguistico, uno sviluppo culturale puristico-puritano, chiuso nella continuità di una traccia geometrica “continua, progressiva e rettilinea”, secondo le parole di Achille Bonito Oliva. Lentamente abbiamo avvertito un crescente senso di fastidio, nel constatare l’impossibilità del rapportarsi dell’arte come sovrastruttura rispetto alla strutture economiche e sociali; specie se poi la produzione materiale scivolava inevitabilmente da valore-qualità a merce-quantità. Ecco cos’era la morte dell’arte, hegelianamente parlando.
Se abbiamo avuto la forza per rialzarci con vigore è perché una generazione di pensatori, artisti e creatori ci ha detto che l’arte “non è progressista bensì progressiva”, nei confronti del mondo imperturbabile: essa, attraverso l’opera del singolo, l’individuale coscienza, non può essere riducibile alla realtà, alla vita, ma anzi deve forzarla verso condizioni di impossibilità. E’ l’arte che non transige, senza mediazioni né compromessi, perché si tramuta in una semovente discontinuità, proprio nel momento in cui il reale assurge all’immobilità, nella produzione.
Ci spingiamo pertanto, ne converrete, ad un punto di rottura, di discontinuità contro ogni omologazione, di conflittualità e di consapevolezza di un’irrimediabile frattura nella conciliazione con le cose, con il mondo. E’ un non-consenso verso la realtà, un sottile e strisciante moto ribelle che, del resto, ad un livello più macroscopico, è nei cromosomi del novecento artistico (vedi Arnold Hauser in Storia sociale dell’arte). Ci piace però sentire l’individualità di questo processo, il recupero dell’immaginario singolare, del sentimento del sè, in un’accezione quasi neo-simbolista che si realizza nella transavanguardia, in artisti come Chia, Clemente, De Maria e Paladino.
Solo con questi “nomadi” creatori d’arte, aperti, viaggiatori, antipregiudiziali ma capaci di mettere da parte “l’ideologismo del poverismo e la tautologia dell’arte concettuale” ci ritroviamo a ribadire il concetto di arte prima ars, e l’opera si specchia in sè, nel puro piacere di esibirsi, senza sovrastrutture ideologiche e pinnacoli intellettuali. Ed è ai principi di discontinuità ed individualità che torniamo oggi, prepotentemente, quasi trent’anni dopo questa rivoluzione artistica. Vogliamo parlare di terza avanguardia, anche come reazione all’ “ignominioso” Post-Modern, nelle parole del professor Zevi. L’importante tesi di Gabriele de Giorgi, pubblicata da Diagonale, delimita efficacemente l’ambito filosofico-artistico di un movimento che si alimenta negli ambienti post-strutturalisti, nei concetti di fratture, vuoti, discontinuità.
Artisti come Makoto Sei Watanabe, Rem Koolhaas, Robert Venturi od, a livello sublime, Frank Owen Gehry e Daniel Libenskind (tutti architetti), sviluppano i propri impeti poggiandosi sui pilastri filosofico-progettuali del decostruttivismo di Jacques Derrida, nel principio di non-casualità e nella geometria dei frattali. E’ un processo che assorbe anche l’elemento informatico, nel momento in cui il computer assurge a strumento antireazionario: esso ha “annullato… il compasso, il tecnigrafo, il disegno, la prospettiva: una forma di visione che dal Rinascimento in poi ha sempre annullato lo spazio”. Questa visione si oppone alle semplificazioni volumetriche, che uccidono gli oggetti, rendendoli visibili monocentricamente, impedendo di cogliere arte e architettura, e rendendoci solo una mera rappresentazione di esse.
Il mezzo computer invita per costruzione al disegno libero, stimola e non opprime ingabbiando i mezzi espressivi in tecnigrafi e righe a T. Si recupera così il messaggio di Frank Lloyd Wright, la sovranità dell’individuo: il futuro è in un’espressione “libera, antidogmatica in una società libera, armonica nella conflittualità”. Dissolviamo dunque le gerarchie, esaltiamo il “banale straordinario”, sottolineamo i dissolvimenti gerarchici e valorizziamo la perdita dell’unità. Con tanti epitaffi più o meno commossi e saluti e baci alla prospettiva.